Arte e letteratura,  Miscellanea

6 Agosto 1945

“Può descrivere i fatti di quella mattina?”
“Uscii di casa con mia figlia Masako. Lei andava al lavoro. Io a trovare un’amica. Lanciarono un allarme attacco aereo. Dissi a Masako che andavo a casa. Lei disse: “Io vado in ufficio”. Feci un po’ di lavoretti e aspettai che cessasse l’allarme.
Rassettai i letti. Riordinai l’armadio. ripulii le finestre con uno straccio bagnato. Ci fu un lampo. Il mio primo pensiero fu che fosse il lampo flash di una macchina fotografica. Sembra così ridicolo adesso. Mi trapassò gli occhi. La mia mente sbiancò. Tutto intorno, i vetri delle finestre tremarono. Un rumore come quando mia madre mi faceva sst per zittirmi.
Quando rinvenni, mi resi conto di non essere in piedi. Ero stata scagliata in un’altra stanza. Lo straccio era ancora nella mia mano, ma non era più bagnato. Il mio unico pensiero era trovare mia figlia. Guardai fuori dalla finestra e vidi uno dei miei vicini, in piedi, quasi nudo. La pelle gli si stava staccando da tutto il corpo. Gli penzolava dalla punta delle dita. Gli chiesi che cosa era successo. Ma era troppo esausto per rispondermi. Guardava in tutte le direzioni, posso immaginare che cercasse i suoi cari. Pensai: Devo andare. devo andare a trovare Masako.
Mi misi le scarpe e indossai il cappuccio protettivo per gli attacchi aerei. Andai verso la stazione. Incrocia tanta, tanta gente che si allontanava dal centro. Si sentiva un odore come di calamari alla griglia. Dovevo essere sotto shock, perché le persone mi sembravano calamari sbattuti dalle onde sulla riva.
Vidi una ragazzina venire serso di me. La pelle le colava giù, si stva sciogliendo. Sembrava cera. Mormorava: “Mamma. Acqua. Mamma. Acqua.” Pensai che poteva essere masako. Ma non era lei. Non le diedi l’acqua. Mi rincresce di non avergliela data. Ma io stavo cercando la mia Masako.
Continuai a correre fino alla stazione di Hiroshima. Era piena di gente. Alcuni erano morti. Molti erano stesi a terra. Chiamavano le loro madri e chiedevano acqua. Andai al ponte Tokiwa. Dovevo attraversarlo per arrivare all’ufficio di mia figlia.
“Vide la nuvola a forma di fungo?”
“No, non la vidi.”
“Non vide la nuvola?”
“No. Stavo cercando Masako.”
“Ma la nuvola era stesa sopra la città.”
“Cercavo mia figlia. Mi dissero che non si poteva attraversare il ponte. Pensai che forse era tornata a casa, quindi tornai indietro. Ero al tempio di Nikitsu quando dal cielo cominciò a cadere la pioggia sporca. Mi domandai cosa poteva essere.”
“Può descrivermi la pioggia sporca?”
“La aspettai a casa. Aprii le finestre anche se non c’erano vetri. L’aspettai sveglia per tutta la notte. Ma lei non tornava. Alla mattina, verso le 6.30, arrivò il signor Ishido. Sua figlia lavorava nello stesso ufficio della mia. Chiese gridando se c’ra qualcuno a casa di Masako. Uscii di corsa, urlando “Qui, da questa parte!” Il signoe Ishido si avvicinò e mi disse: “Svelta! Prenda dei vestiti e vada da lei. E’ sulla riva del fiume Ota”.
Incominciai a correre. Più in fretta che potevo. Quando arrivai al ponte Tokiwa, c’erano dei soldati stesi a terra. Vicino alla stazione di Hiroshima vidi altre persone a terra, morte. Ce n’erano di più la mattina del sette, che il sei. Quando arrivai in riva del fiume, non riuscii a distinguerli l’uno dall’altro. Continuai a cercare Masako. Sentii qualcuno che gridava “Mamma!” Riconobbi la voce. La ritrovai in condizioni spaventose. E a volte, in sogno, la rivedo ancora così. Mi disse: “Quanto tempo ci hai messo…”
Le chiesi scusa: “Ho fatto più presto che ho potuto”. Eravamo soltanto io e lei. Non sapevo che fare. Non ero un’infermiera. Nella sue ferite c’erano dei vermi e un liquido giallo, appiccicoso. Non sapevo che fare. Cercai di pulirla. Ma come la toccavo, si staccava la pelle. E uscivano vermi dappertutto. Non li potevo strofinare via, perché avrei tolto anche la sua pelle, e i muscoli. Li dovevo prendere fra le dita. Mi domandò cosa stavo facendo. Le risposi: “Oh, niente”. Lei fece sì con la testa. Nove ore dopo morì.”
“E in quelle ore la tenne sempre fra le braccia?”
“Si, la tenevo fra le braccia. Lei mi diceva: “Non voglio morire” e io: “Non morirai”. Diceva: “Prometto che non morirò prima di arrivare a casa”. Ma soffriva, e continuava a piangere e a dire: “Mamma”.
“Dev’essere difficile per lei parlare di queste cose.”
“Quando ho sentito che la vostra organizzazione registrava le testimonianze, ho deciso che dovevo venire. Lei è morta fra le braccia dicendo: “Non voglio morire”. La morte è questo. Non conta la divisa che indossano i soldati. Non conta quanto sono buone le armi. Ho pensato che se tutti avessero visto quello che io ho visto non ci sarebbero state più guerre, mai più.”

Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, Guanda, Milano 2005, pp. 205-207

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