Arte e letteratura,  Miscellanea

Gli infiniti lati di un poligono

Un proiettile di gomma, se sparato da un tubo metallico all’estremità di un M-16, lascia la canna del fucile a una velocità superiore a centosessanta chilometri l’ora.

[…]

Il proiettile che uccise Abir aveva attraversato l’aria per quindici metri prima di colpirla dietro alla testa, frantumandole le ossa del cranio come quelle di un minuscolo ortolano [uccello della famiglia degli Emberizidi n.d.r.].

Era andata in drogheria a comprare delle caramelle.

[…]

Immagina: ti trovi ad Anata, sul sedile posteriore di un taxi. Una ragazzina fra le braccia. Le hanno appena sparato un proiettile di gomma dietro la testa. State andando all’ospedale.

Il taxi è imbottigliato nel traffico. La strada attraverso il checkpoint di Gerusalemme è chiusa. Se cerchi di passare illegalmente, nella migliore delle ipotesi, ti arrestano. Nella peggiore, sparano a tutti e due, a te e al tassista, mentre trasportate la bambina cui hanno appena sparato.

Abbassi lo sguardo. La bambina respira ancora. Il tassista schiaccia la mano sul clacson. L’automobile dietro strombazza. L’automobile davanti si unisce al coro. Il fracasso raddoppia e poi raddoppia ancora. Guardi fuori dal finestrino. La macchina si spinge oltre un cumulo di rifiuti. Sacchetti di plastica sbattono al vento. Non vai da nessuna parte. Il caldo ti grava addosso. Una goccia di sudore, dal tuo mento cola sul sedile di plastica.

Il tassista pesta di nuovo sul clacson. Il cielo è azzurro con lembi sfilacciati di nubi. Come la macchina avanza, la ruota anteriore affonda in un’altra buca. Le nuvole, pensi, sono quanto di più veloce ci sia qui intorno. Poi, un movimento: le pale di due elicotteri prendono a rasoiate il cielo.

Una parte di te vorrebbe uscire e portare a braccia la bambina gravemente ferita, però devi sostenerle la testa e cercare di non muoverla mentre al suolo nient’altro si muove.

[…]

Il proiettile era stato sparato dal retro di una jeep in movimento. Attraverso una feritoia di metallo sul portellone posteriore, di dieci centimetri per dieci.

Nel suo rapporto, il comandante della polizia di confine scrisse che stavano scagliando pietre da un cimitero vicino. I suoi uomini, sosteneva, erano in pericolo di vita.

Abir aveva dieci anni.

[…]

La pallottola aveva un nucleo di metallo, ma era rivestita di una speciale gomma vulcanizzata. Quando colpì il cranio di Abir, la gomma si alterò leggermente, per poi tornare alla forma originaria senza alcun danno evidente alla pallottola.

[…]

La guardia di confine che sparò il colpo aveva diciotto anni.

Negli anni ottanta, durante le operazioni in Libano, ai soldati israeliani in procinto di partire in missione a volte veniva chiesto di posare per fotografie ufficiali insieme ai compagni di plotone.

Mentre si mettevano in riga, veniva loro detto di porsi a una certa distanza in modo che nella foto restasse un ampio spazio fra l’uno e l’altro.

I fotografi non chiedevano altro. I soldati potevano sorridere, fare il viso arcigno, guardare in macchina o da un’altra parte. Non importava – la sola cosa che dovevano fare era lasciare uno spazio di almeno un palmo dal compagno, in modo che le loro spalle non si toccassero, tutto lì.

Alcuni pensavano che fosse un rituale, altri immaginavano che fosse una direttiva militare, altri ancora ritenevano che fosse una forma di decoro e umiltà.

I soldati si riunivano a gruppetti accanto ai carrarmati, nelle tende, lungo le file dei letti a castello, nelle armerie, sui palchi della banda, nelle mense, vicino a pareti di lamiera, con le verdi colline del Libano sullo sfondo. Uno spiegamento di berretti: verde-oliva, nero-pece, grigio-piccione.

Le foto erano un’arena di espressioni: paura, spavalderia, ansia, disagio, arroganza. Confusione, anche, alla richiesta di scostarsi un po’ di più l’uno dall’altro. Dopo lo scatto, partivano in missione.

In certi casi era questione di giorni, in altri, di settimane, in altri ancora di mesi, prima che la ragione diventasse evidente: lo spazio fra i soldati serviva nel caso in cui la fotografia dovesse essere pubblicata sui giornali, o mostrata in tv, con il morto identificato da un deciso cerchio rosso disegnato intorno alla faccia.

[…]

I redattori dei giornali e i produttori televisivi si premuravano di evitare l’immagine di linee intersecate. A volte c’erano cinque o sei anelli in una sola fotografia.

Colum McCann, “Apeirogon”, Feltrinelli, pagg. 23-31

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